Dapprima la parola «coronavirus». Non si tratta di un termine nuovo. In seguito all’epidemia di SARS (nel 2002/2003) è entrata nel dizionario, ma dopo l’epidemia era caduta in disuso presso il grande pubblico. Anche la parola «epidemia» e altri termini linguistici specialistici come «pandemia», «immunità di gregge» o «letalità» sono attualmente molto gettonati. Resta tuttavia da chiedersi fino a che punto saranno ancora necessari dopo la crisi. Probabilmente sarà come dopo l’epidemia della SARS: appena temi come virus e pandemie scompaiono dalle prime pagine dei giornali, le persone usano meno frequentemente i termini associati. Tra l’altro, la crisi ci ha regalato la parola «Covid-19» come new entry del dizionario.
Alcuni termini già esistevano, ovviamente, ma non erano noti alla maggior parte delle persone. Tra questi figura ad esempio il «triage». Questo termine indica la classificazione in base alla priorità dei casi che necessitano di assistenza medica. A causa delle risorse mediche limitate, è sempre possibile che medici e ospedali siano costretti a prendere decisioni difficili. Le persone sono ora diventate consapevoli di questo problema e della precarietà di alcuni sistemi sanitari.
Altri termini non sono nuovi, sono semplici combinazioni di altri nomi. Questo accade soprattutto con il tedesco, la cui propensione a formare parole composte non si arresta dinanzi alla crisi. Sono stati quindi coniati termini come «Corona-Baby» (per i bambini nati durante la pandemia) o «Corona-Frisur» (per i tagli di capelli fatti in casa durante il lockdown) o «Corona-Jahrgang» (per i diplomati dell’anno). Mentre il primo sarà ricordato probabilmente solo dai neogenitori, il secondo è destinato a scomparire dopo la crisi e l’ultimo rimarrà per tutta la vita nel ricordo dei giovani che hanno terminato gli studi nell’estate del 2020: esame sì, esame no? Altri neologismi ancora dominano sia i titoli dei giornali sia i social, come «isteria da Covid», «panico da Covid-19» o «coronavirus bond». Queste creazioni legate alla contingenza non vengono utilizzate abbastanza spesso per farsi strada nel dizionario. Soprattutto dopo la crisi. Si arriva fino all’estremo del «covizzato» per indicare una persona positiva o malata di coronavirus. Con l’anglicismo «Covid-free» si allude in genere a uno stato di assenza di contagi.
Ma il nuovo vocabolario non ruota soltanto attorno ai termini «coronavirus» e «Covid». Una novità è ad esempio la «visiera paraschizzi» un nome un po’ insolito per indicare la visiera protettiva trasparente utilizzata in alcuni negozi e locali. In tempi di coronavirus è importante la distanza. Per questo si è parlato di «distanziamento sociale» o, all’opposto, del rischio di «assembramento». Per non contagiarsi, le persone devono mantenere le distanze l’una dall’altra. Probabilmente anche queste parole perderanno importanza dopo la crisi. Anche il termine «rilevante per il sistema» non è una novità ma viene utilizzato con maggiore frequenza da quando sono stati introdotti i lockdown.
La crisi ci porta anche alcuni anglicismi. Come per le altre parole, non si tratta di nuovi vocaboli ma di un aumento della loro frequenza d’uso in ragione della nuova e inusuale situazione. In testa ci sono «lockdown», «shutdown» e «home office». Per tutti esistono degli equivalenti in italiano, ma forse meno alla moda. Invece di «lockdown», si potrebbe utilizzare il «confinamento», ma questo riguarderebbe solo la libertà di movimento delle persone. Il «lockdown» si riferisce invece all’arresto complessivo della vita quotidiana e dell’economia e descrive la sospensione totale di qualsiasi attività al di fuori delle proprie quattro mura. Quando si parla di «home office» alcuni pensano forse al «lavoro a domicilio», ma questo non comprende l’installazione temporanea di un ufficio all’interno della propria abitazione. La flessibilità di lavorare da casa era stata richiesta da tempo, sia dai lavoratori sia dai datori di lavoro. Alcuni vedono nella crisi un’opportunità per promuovere questo modello. Allo stesso modo è diventata evidente anche la necessità di recuperare terreno sul fronte della digitalizzazione.
Il termine «superspreader» è usato da anni dagli epidemiologi, ma per noi profani è nuovo. Il dizionario non l’ha ancora incluso, ma in italiano è entrato nell’uso corrente la nozione del «super diffusore». Una variante tedesca più forte, simile al concetto del «superuntore», è stata impiegata ad esempio per lo scandalo presso il mattatoio del gruppo Tönnies e per il caso di Ischgl: Virenschleuder o «catapulta virale». Ma è davvero necessaria una traduzione dei termini inglesi? Anche no. Grazie all’ampia copertura mediatica, anche chi non conosce l’inglese capisce che il superspreader diffonde i virus su larga scala. Si tratta di un termine con una forte connotazione emotiva, che viene associato alla superficialità e a un atteggiamento irresponsabile. Tuttavia, è poco probabile che questo anglicismo sia adottato come termine denigratorio nel linguaggio comune.
Il «social distancing» è un altro termine di nuova introduzione. Anche se, in epoca di epidemie, l’idea di mantenere le distanze non è affatto nuova, il concetto del distanziamento sociale ha cominciato a diffondersi solo durante la crisi. È un termine difficile da rendere in tedesco. L’aggettivo «sociale» nel termine «distanziamento sociale» ha una connotazione completamente diversa rispetto all’inglese. Da noi, «sociale» esprime anche un’azione a beneficio della collettività, mentre in inglese si riferisce principalmente alla socievolezza.
Oltre ai nuovi o vecchi anglicismi o ai termini tecnici, la crisi ha portato anche a una diversa scelta delle parole. Presidenti come Macron o Trump usano termini come «nemico invisibile» quando parlano del virus. Anche la parola «guerra» è utilizzata spesso in riferimento alla lotta contro il virus. Il gergo bellico è spesso usato dalla classe politica per spiegare al popolo la gravità della situazione. Sicuramente questa scelta lessicale influisce sul modo in cui le persone percepiscono la situazione attuale. Alcuni soffrono di attacchi di panico, altri si sentono così spronati a sostenere pienamente le misure e ad accettare le restrizioni.
Maschera è un prestito dall’arabo, dove significa stolto, buffone, scherzo. Oggi nessuno associa questa parola al carnevale o alla commedia di Jim Carrey del 1994. Con il Covid-19 siamo diventati esperti di mascherine, parliamo di mascherine protettive, igieniche e di protezione delle vie respiratorie. Ormai utilizziamo con disinvoltura anche le designazioni tecniche come FFP2 e FFP3. Dall’ordinanza sull’obbligo di indossare la mascherina nei trasporti pubblici, la protezione di naso e bocca è diventata il simbolo visibile della pandemia. È probabile che nel prossimo futuro la parola «maschera» sarà utilizzata con altre connotazioni rispetto a prima del 2020.
In ultima analisi, l’entità del cambiamento nel vocabolario dopo la crisi del coronavirus dipenderà da quanto cambieranno durevolmente le nostre condizioni di vita. Se la crisi si dovesse protrarre a lungo, molte di queste parole potrebbero insediarsi in maniera duratura nella nostra lingua. In caso contrario, si può presumere che la maggior parte di loro avrà vita breve.
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